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martedì 16 febbraio 2010

Il GIOVANE è morto

Alcune riflessioni sull'inutilità delle politiche giovanili


Sabato scorso (13 febbraio) ho partecipato a Effetto dinamo. Meeting dei giovani, invitato dalla Regione Veneto a condurre un laboratorio sul tema "imprenditività/imprenditorialità" portando la mia esperienza personale nonché l'esempio dello spazio creativo condiviso come alternativa ad altre forme più strutturate di impresa (società, cooperative).



Non mi dilungo sui contenuti del laboratorio, avendoli in un certo senso già anticipati nel post Noi giovani imprenditori di noi stessi.

Avevo partecipato altre volte a eventi di questo tipo: la prima a Jesolo, nel 2004, durante il "Forum regionale dei giovani", per parlare del progetto Auteditori, finanziato dalla Regione; l'ultima ad aprile 2009, a Padova, al Convegno regionale Giovani. Produttori di significati. Junior. Dall’esperienza alle nuove strategie per parlare di come quel progetto avesse creato i presupposti per un futuro lavorativo (lo Spazio Sputnik).

Già ad aprile 2009 avevo notato con piacere come l'obiettivo delle cosiddette "politiche per i giovani" della Regione si stesse spostando un po' alla volta dal piano del tempo libero a quello del lavoro, e infatti io, Andrea Rajna e Alberto Scapin eravamo stati invitati proprio per quello: far vedere come un progetto "per il tempo libero" finanziato dalla Regione potesse porre le basi per una futura professione autonoma. Il meeting di Soave dello scorso weekend ha confermato la volontà della Regione di continuare su questa strada, e ciò mi fa fatto ancora più piacere.

A parte la qualità dell'organizzazione e dell'offerta (anche in termini "pratici": i giovani partecipanti sono stati ospiti – vitto e alloggio compreso – della Regione dal mattino di venerdì al pomeriggio di sabato) la cosa che più mi ha colpito è stata la quantità e qualità degli iscritti: ragazzi estremamente motivati, impegnati, con idee precise e per niente campate in aria.

Per dire, solo nel mio laboratorio c'erano, tra gli altri: un diciannovenne studente in matematica applicata che ha da poco aperto con un amico una società nel campo dell'abbigliamento; due neo-laureati in ingegneria elettronica che fanno parte di una start-up che sta sviluppando un generatore eolico alternativo a quello a pale; un neo-laureato in psicologia che si è messo in testa di indagare i meccanismi dell'imprenditorialità giovanile; una neo-laureata in conservazione dei beni culturali che sta cercando di crearsi un lavoro autonomo nel suo campo; ma anche un ex giovane imprenditore nel campo dell'allestimento fieristico da poco costretto a chiudere per colpa della crisi; un impiegato full-time che nel tempo libero si dedica ad un'attività autonoma di comunicazione pubblicitaria; un ex web designer freelance che ha deciso di reinventarsi seguendo la passione per la musica; un neo-laureato in ingegneria informatica che non accetta di restare chiuso nei limiti imposti dal suo settore e deve lottare per imporre la sua volontà di fare più cose (programmare ma anche fare grafica, siti, musica).

Terminata la sessione mattutina dedicata ai laboratori – e terminato il ricco buffet... – si è aperta una discussione plenaria, condotta dallo psicologo Mauro Croce, durante la quale un rappresentante per ogni laboratorio ha portato all'attenzione di tutto il pubblico alcuni aspetti emersi durante la mattina. Anche in quel caso ho visto e sentito ragazzi particolarmente attivi, svegli, acuti – e allora ho iniziato a riflettere... riflettere... finché le riflessioni non si sono concretizzate in un intervento che ho presentato al pubblico come «un sassolino nella scarpa che da anni volevo togliermi».

Premessa: ci si stava interrogando sul fatto che all'estero, per i giovani, ci sono più opportunità di lavoro (o comunque di realizzazione) rispetto all'Italia, e che i nostri giovani spesso partono per città straniere alla ricerca di quello che qui non trovano. Insomma: si era cascati a parlare del problema della mancanza di lavoro, in Italia, per le nuove generazioni.

È a quel punto che ho alzato la mano, ho preso la parola e ho portato prima la mia esperienza di neo-laureato che se n'è andato all'estero non tanto per trovare lì un'opportunità, ma  per farsi un'esperienza di vita, oltre che di lavoro, per poi tornarsene nel proprio paesino di origine e qui crearsi la sua opportunità lavorativa in proprio.

Poi ho portato quella di ex-giovane impegnato da 15 anni nel settore dell'associazionismo culturale "senza scopo di lucro". Un settore in cui sono costantemente impiegati – ma senza retribuzione – migliaia di giovani. Un settore su cui le amministrazioni pubbliche (specie quelle locali: comuni, province, regioni) contano – ma senza darlo a sapere – più che sul gettito fiscale. Un settore in cui il capitale umano, creativo, professionale del futuro è meticolosamente relegato (a suon di "contentini": contributi, bandi, concorsi, etc.), come in una specie di limbo in cui non si è né professionisti (il lavoro è un'altra cosa...) né volontari (il volontariato è un'altra cosa...).

Ho lanciato allora una duplice proposta: o si fa in modo che il lavoro culturale che questi ragazzi svolgono venga riconosciuto dal punto di vista professionale, trovando una formula che permetta loro di autoremunerarsi per quello che fanno, senza che si sentano con la coscienza sporca (basta rimborsi spese truccati!) o inadeguati (basta prestazioni occasionali!); oppure che facciano sciopero: sciopero dei giovani e delle associazioni culturali senza scopo di lucro. Vedremo cosa resta della tanto decantata cultura italiana: una mostra sul Caravaggio alle scuderie del Quirinale a Roma, una dei macchiaioli agli Uffizi di Firenze, una degli impressionisti a Ca' dei Carraresi a Treviso, la Biennale a Venezia. Insomma, la cosiddetta "industria culturale" ufficiale, i cui organizzatori non hanno minimamente idea di cosa significhi lavorare (cioè faticare, dal latino labor = fatica) "senza scopo di lucro"...

«A questo punto – ho concluso – delle politiche giovanili non sapremmo più cosa farcene...», e stavo per aggiungere "... perché a questo punto la categoria GIOVANI non avrebbe più motivo di esistere" ma non ce l'ho fatta, perché era già partito l'applauso – sincero, non di circostanza.

Forse è stato meglio così, visto che un'affermazione del genere poteva essere mal interpretata. In realtà più il tempo passa più mi convinco davvero che dovremmo smetterla di parlare di "giovani" (e di progetti "giovani", centri "giovani", politiche per i "giovani"), o meglio di usare questo aggettivo come categoria. Finita l'età dell'adolescenza, infatti, un ragazzo può diventare uno studente, un lavoratore, entrambe le cose assieme o nessuna delle due. Queste sono già delle categorie, ognuna con delle esigenze specifiche: perché dobbiamo usarne un'altra che le racchiuda per forza tutte insieme?

P.S. Il titolo di questo post si rifà chiaramente all'aforisma (se così si può chiamare) di Nietzsche "Dio è morto".

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