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martedì 24 novembre 2009

Noi giovani imprenditori di noi stessi...



Guardando la puntata di L’infedele (su La7) di ieri sera (qui il post relativo alla puntata nel blog di Gad Lerner) cosa scopro? Che Luca Casarini, il leader dei “disobbedienti”, dei “no-global”, è... “una partita iva”! Da qualche tempo, infatti, la più famosa “tuta bianca” d’Italia si occupa (senza k...) di «consulenza sul marketing e design pubblicitario» come libero professionista. Insomma: siamo colleghi – anzi, quasi quasi siamo pure concorrenti.

Inizialmente mi stupisco, poi sorrido e dico tra me e me: quale scelta migliore per un “autonomo”, se non quella di diventare un lavoratore autonomo? In fine dei conti anche io ho occupato la scuola, anche io ho frequentato i centri sociali, ed eccomi qua, autonomo e indipendente...



Allora mi faccio un giro in rete, leggo un paio di sue interviste (tutte recentissime, tipo questa sul Corriere del Veneto) sulla questione, mi trovo d’accordo su alcune delle sue affermazioni, e infine mi vien pure da pensare che lo fa proprio bene, il suo lavoro, se col solo fatto di essersi aperto la partita iva i media (dai giornali alla tv) gli stan dando da un paio di settimane a questa parte tutta questa visibilità. Viral marketing, si chiama in gergo.

Il “caso Casarini” non può non sovrapporsi con la mia recente decisione di pubblicare nel blog la traccia di un intervento che ho fatto qualche sera fa a Camposampiero (PD), invitato – assieme all’amico e collega Enrico Lucchese – dall’amministrazione locale e dalla cooperativa sociale Il sestante a portare la mia testimonianza in una serata dedicata all’imprenditoria giovanile.

Lo scopo non è certo quello di farmi pubblicità (quando deciderò di farmela seriamente mi sa che mi rivolgerò al collega Casarini :-) bensì quello di stimolare un dibattito sulla necessità di avviare a livello istituzionale dei progetti diffusi di incubatori dell’imprenditoria giovanile, ovvero spazi condivisi, concessi a condizioni agevolate e per un numero limitato di anni a giovani intenzionati ad avviare un’attività autonoma di tipo creativo, artistico, intellettuale. Insomma: un “progetto giovani” che vada oltre l’età in cui le scelte sono spesso obbligate (superiori, università) e sconfini nell’età dell’indipendenza (economica, famigliare, etc.).

Io l’ho fatto, anche se “privatamente” e dopo quasi cinque anni dall’avvio della mia attività. Se volete accomodarvi, questa è tutta la storia...


Mi chiamo Mirko Visentin, ho 33 anni, vivo e lavoro a Quarto d’Altino, un piccolo paese tra Treviso e Venezia. Se può interessare, sono sposato e ho un figlio di due anni.
Ho all’attivo un diploma di perito in telecomunicazioni, una laurea in lettere e uno stage di sei mesi presso una piccola casa editrice di Barcellona: mettendo assieme le tre cose (e una grande passione per il libro e la grafica), nel 2004 mi sono messo in proprio, come libero professionista, e da allora mi occupo prevalentemente di progettazione editoriale (in parole povere correggo, progetto, impagino libri), secondariamente di progettazione grafica e web design. Inoltre, ho una piccola casa editrice (e già il nome, MiMiSol, la dice lunga...)
La scelta della “libera professione” (che non significa una delle classiche professioni tipo avvocato, commercialista, architetto, ma un lavoro che “mi sono inventato”) non è stata sofferta, anzi: in famiglia ho sempre respirato aria di “indipendenza” lavorativa (mio papà ha lavorato in proprio per trent’anni, anche se in tutt’altro settore) quindi se c’è una cosa che ho sempre evitato quello è il posto da dipendente, peggio ancora se fisso (nonostante le mie esperienze da dipendente le abbia avute, una tra tutte lo sguattero da Mac Donald’s, quand’ero all’università).
Una scelta, quella dell’indipendenza, che non va confusa con quella dell’imprenditoria comunemente intesa, cioè: ho un’idea, cerco i finanziamenti per realizzarla, faccio degli investimenti consistenti (macchinari, personale, pubblicità etc.) e alla fine mi riduco a fare il “titolare” e a curare le pubbliche relazioni. No: la mia idea di “lavoro indipendente” è sempre stata più vicina a quella dell’artigiano, che ha bisogno di fare oltre che di pensare, anche se, in quanto figlio del mio tempo, quello che creo l’ho sempre fatto con la testa e col computer. Di più: un artigiano che basta a se stesso, senza bisogno di dipendenti, e che quando non ha tutte le competenze per realizzare un lavoro, chiede la collaborazione di suoi simili.
Se la scelta di mettermi in proprio non è stata sofferta altrettanto non posso dire per la fase di avvio dell’attività. Per partire ho aderito al bando lanciato all’epoca da quella si chiamava SviluppoItalia (oggi Invitalia): un’agenzia governativa nata per supportare, tra le altre cose, l’imprenditoria giovanile e l’autoimprenditoria. Ci ho messo sei mesi per compilare le carte necessarie a provare che la mia idea era realizzabile, che non avrei fallito dopo due settimane, e alla fine ce l’ho fatta.
L’aiuto di SviluppoItalia (che prevedeva un finanziamento a fondo perduto per metà dell’investimento iniziale, e un mutuo agevolato al 4% per l’altra metà, da pagare in 5 anni a partire dall’anno successivo all’avvio dell’attività) non è stato cruciale solo per l’acquisto di macchinari professionali (computer, programmi, stampante, scanner etc.) o dell’arredamento, ma anche e soprattutto per le spese di gestione del primo anno, cioè affitto, luce, gas, telefono (che sono i costi che più incidono sull’andamento di un’attività in fase di avvio, più ancora delle famigerate tasse, ultimamente “arginate” da sistemi agevolati e super semplificati).
Un aiuto – quello di SviluppoItalia – tanto più provvidenziale se si considera che, parallelamente all’avvio della mia attività, avevo dato vita assieme a degli amici scrittori al Gruppo di autoproduzione editoriale Auteditori. Si trattava di un progetto interessante, anche in relazione alla mia attività di “servizi per l’editoria”, però – per questioni legate ad un finanziamento regionale – assolutamente “no profit”. Insomma: in una fase delicata come quella di start-up io dedicavo la maggior parte del mio tempo a questo progetto non remunerativo...
Qualcuno penserà che sono stato uno sconsiderato a muovermi in questo modo. In realtà, oltre che una soddisfazione personale per me e per tutti quelli che furono coinvolti, Auteditori era destinato a diventare di lì a poco tempo, un importante punto di riferimento per chi, in provincia di Venezia e Treviso (ma non solo), fosse intenzionato ad pubblicare un libro “da sé”, senza mettersi nelle mani di un impersonale editore a pagamento.
Auteditori è stata quindi una specie di operazione di viral marketing inconsapevole, ma anche una palestra professionale non indifferente (abbiamo sfornato 15 libri, realizzato un sacco di letture musicate, partecipato a dibattiti etc.), e a distanza di 3 anni ha iniziato a dare i suoi frutti.
Come dire: se credi davvero in qualcosa, prima o poi i frutti si vedranno...
Tornando alla questione delle spese di gestione, col tempo – e anche grazie all’esperienza di gruppo fatta con gli Auteditori – mi son fatto questa idea, ovvero: un giovane che sostiene di avere le capacità per lavorare in modo autonomo, mettendo a frutto la propria creatività e/o la capacità di usare la tecnologia (di cui sicuramente è già in possesso), può farlo tranquillamente da casa (magari dei suoi, se vive ancora con loro), abbattendo qualsiasi tipo di spesa di gestione. Ma se decide di trovare uno spazio “dedicato” alla sua attività, perché inizia ad avere giro di clienti, o perché ha bisogno di più spazio, allora cominciano i problemi: gli affitti sono alti, le utenze “business” pure etc.
La soluzione che io, assieme ad un paio di amici, ho trovato a fine 2008 (dopo esser passato prima per un ufficio tutto mio, poi per la cameretta di casa) è stata quella dello spazio di lavoro condiviso, cioè un locale in cui più professionisti lavorano, dividendosi a fine mese le spese. Una soluzione pratica, ma che costituisce il terreno fertile per la nascita di collaborazioni, specie quando gli ambiti di lavoro sono vicini. Il luogo lo abbiamo chiamato Spazio Sputnik: da un lato perché si trova in via Gagarin, a Quarto d’Altino, dall’altro perché “sputnik”, in russo, significa “compagno di viaggio. Un nome sicuramente di buon auspicio...


Il discorso finiva più o meno con la speranza che la “politica” possa prendere in considerazione l’istituzione di questi incubatori, in cui un giovane si insedia con i propri strumenti trovando un luogo confortevole e dedicato, dotato di tutti i servizi (compreso adsl, telefono, fax, momenti di formazione e tutoraggio) e di spazi comuni, quindi terreno fertile per far nascere progetti condivisi. Il tutto ad un prezzo contenuto.

In un periodo in cui non si fa che parlare di ammortizzatori sociali da milioni di euro, mi pare sia un’idea di facile attuazione, in grado tra l’altro di autosostenersi finanziariamente (specie se gli spazi messi a disposizione sono di proprietà pubblica).

Su indicazione dell’amico Paolo Formisano, ho scoperto che una cosa simile l’hanno fatta ad Asolo (quindi qui vicino, molto vicino), e si chiama Fondazione la Fornace dell’innovazione. Certo: si tratta di una cosa fatta in grande stile, con investimenti consistenti. Io sono però dell’idea che si potrebbe fare anche con molto meno, o comunque un passo alla volta.

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